Tutti gli articoli di Eugenio Dal Pane

Viteliù: Nuovo prestigioso riconoscimento per lo scrittore Nicola Mastronardi

In occasione della cerimonia conclusiva del Premio Castello di Prata sannita – L’iguana-Omaggio ad Anna Maria Ortese, tenutasi domenica 29 giugno 2014 è stato consegnato a Nicola Mastronardi il primo premio nella sezione narrativa “per una storia che attendeva di essere raccontata o meglio per un popolo quello sannita che aspettava il suo riscatto storico dall’oblio”.

Lo scrittore altomolisano, ottiene un nuovo riconoscimento per il suo romanzo storico d’esordio definito dalla giuria “opera pregevole che unisce esattezza della ricostruzione storica ad uno stile narrativo immediato e attraente”, come si legge nella pergamena consegnata all’autore.

Di elevato spessore culturale le giurie delle sei sezioni, Narrativa, Presidenti Marosia Castaldi e Gabriella Fiori; Poesia edita e inedita, Presidente Elio Pecora; corto/video, Presidente Matilde Tortora; Fotografia, Presidente M. Rosaria Rubulota; Musica, Presidente Nicola Rando. Eccezionale la presenza di Gerardo Marotta, Presidente Istituto Italiano per gli Studi filosofici.

Oltre all’indubbio valore storico del romanzo che mette in luce un popolo dimenticato questo romanzo “comunica la certezza che l’esistenza umana non è un vagabondare senza senso, ma un pellegrinaggio dove una meta c’è e si può raggiungere” come disse l’on. Gianni Letta durante la presentazione che fece a Roma.

Questo romanzo non è solo avvincente per la bellezza del testo, corroborata dalla qualità della scrittura dell’autore, o per l’amore che traspare per la terra descritta, ma ha “anche un altro insegnamento riferito ai nostri giorni. Nel momento più difficile, quando tutto sembra perduto e la guerra inevitabile con il suo seguito di morte e devastazione, è l’ora della verità, della sincerità. In età classica si chiamava virtù della “parresìa”, del dire la verità senza furbizie, con onestà”
“Può arrivare anche tra noi un momento così? […] Io credo sia una necessità, e la storia ce lo suggerisce come unica via d’uscita, se non vogliamo essere divorati non una parte dall’altra, ma l’Italia intera, di destra di sinistra o di centro, dallo tsunami di una crisi spietata e che per essere superata ha bisogno di energia concorde. È il perdono e la misericordia reciproci che consentono la speranza”. On. Gianni Letta

Romanzi come questo hanno il grande dono di ricordarci questa speranza.

 

“Francesco secondo Giotto”: guardare Francesco in ascolto di papa Francesco

Per la prima volta nella storia un papa ha preso il nome di Francesco. Una scelta su cui lui stesso è tornato più volte per raccontare come sia maturata e che significato abbia. Nella visita ad Assisi dello scorso 4 ottobre ha detto: «Io ho scelto, come Vescovo di Roma, di portare il suo nome. Ecco perché oggi sono qui: la mia visita è soprattutto un pellegrinaggio di amore, per pregare sulla tomba di un uomo che si è spogliato di se stesso e si è rivestito di Cristo e, sull’esempio di Cristo, ha amato tutti, specialmente i più poveri e abbandonati, ha amato con stupore e semplicità la creazione di Dio».

In questo contesto si colloca la nuova edizione di Francesco secondo Giotto, di cui è autore Roberto Filippetti, il quale illustrando la ricca iconografia della basilica di Assisi e della cappella Bardi in Santa Croce a Firenze ci conduce a guardare la vita del Santo. Il libro doveva uscire un anno fa, poi è stato rinviato e nel frattempo è stato eletto papa Bergoglio. Questo fatto ha impresso al volume un significato nuovo; non si poteva parlare di Francesco a prescindere da ciò che diceva papa Francesco. E infatti l’opera ha preso la sua forma definitiva dopo le parole di Assisi. Esse hanno portato a focalizzare il nesso tra l’amore a Cristo e la santità, sorgente di ricostruzione della bellezza della Chiesa.

San Francesco ha subìto tantissime riduzioni, di tipo ambientalista o pacifista; nel migliore dei casi egli è la colonna che trattiene la Chiesa dalla rovina, isolando questa celebre immagine di Giotto dal contesto della sua narrazione, come se fosse un suo sforzo titanico. Oppure si enfatizza la spoliazione in alternativa alla ricchezza.

In realtà Giotto raffigura Francesco come alter Christus, con lo sguardo rivolto al Padre e avvolto nell’abbraccio della Chiesa che lo copre col suo mantello e lo accoglie come figlio. Di qui l’immagine di copertina, che nella basilica di Assisi si trova al centro di una straordinaria terzina, il cui perno, scrive l’Autore, «è la mano di Dio che, trapassando i cieli, scende e si manifesta. E il Santo, dapprima quasi inconsapevolmente poi in modo sempre più trasparente, tiene lo sguardo su quella mano». «Spogliato di tutto, rivestito dal manto della Chiesa, Francesco inizia il cammino di immedesimazione con Cristo, fino alle piaghe della sua Passione per i fratelli uomini. In tal modo egli è reso ricostruttore della casa di Dio e di quel sommo tempio di Dio che è il cuore dell’uomo».

“Terzina” degli affreschi di Giotto ad Assisi

Recentemente papa Francesco ha detto: «Ciò di cui abbiamo bisogno, specialmente in questi tempi, sono testimoni credibili che con la vita e anche con la parola rendano visibile il Vangelo, risveglino l’attrazione per Gesù Cristo, per la bellezza di Dio. […] C’è bisogno di cristiani che rendano visibile agli uomini di oggi la misericordia di Dio, la sua tenerezza per ogni creatura». San Francesco è stato un testimone credibile e Giotto ne ha rappresentato la vita in modo mirabile.

Dopo tanti libri freneticamente pubblicati in questi mesi su papa Francesco, il volume di Filippetti, riccamente illustrato, si distingue perché ci guida a rileggere l’iconografia del Santo secondo l’originaria intenzione della committenza e degli artisti: ridestare attraverso il fascino dell’arte il desiderio della Bellezza infinita, cioè della santità. Quello a cui ci invita papa Francesco.

Eugenio Dal Pane

Ho scritto al Papa…

Il 27 febbraio ho scritto al Papa per esprimergli la mia gratitudine per il suo magistero e la sua testimonianza.
Oggi mi è arrivata la risposta dalla Segreteria di Stato.

Dal Vaticano, 28 febbraio 2013

Egregio Signore,
Il Santo Padre Benedetto XVI ha vivamente apprezzato le espressioni di spirituale e orante vicinanza manifestate in occasione della Sua rinuncia al Sommo Pontificato, unendo due pubblicazioni.

Egli ringrazia per il premuroso pensiero e, mentre incoraggia a perseverare nella «certezza che la Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mancare la sua guida e la sua cura» (Udienza Generale 13 febbraio 2013), invoca la celeste intercessione della Beata Vergine Maria, Madre della Chiesa, e di cuore Le imparte l’implorata Benedizione Apostolica, volentieri estendendola a quanti si sono uniti nel premuroso pensiero e alle persone care.

Con sensi di distinta stima

Mons. Peter B. WellsAssessore

Un nuovo Benedetto per ripartire da Dio

Domenica scorsa ero in Piazza San Pietro all’ultimo Angelus di Benedetto XVI. Un gesto semplice per esprimergli affetto e gratitudine. Le note che seguono sono appunti di una giornata indimenticabile.

Mentre aspetto penso che la decisione del Papa di rinunciare al ministero petrino abbia gettato una nuova luce anche sulla difficile tornata elettorale. In tempo di elezioni sono tante le promesse e al tempo stesso c’è la speranza che finalmente le cose cambino grazie ad un salvatore in grado di prendere in mano la barca dell’Italia. Ma quel gesto ha messo davanti agli occhi di tutti da dove viene la novità all’uomo e del mondo, dalla conversione a Cristo, dall’amare e seguire Lui, dal costruire la Chiesa, lumen gentium.

A mezzogiorno il Papa si affaccia. «Cari fratelli e sorelle! Grazie per il vostro affetto!». É l’unico accenno a quella giornata speciale. Poi sposta l’attenzione da sé a quel che è accaduto sul Tabor e all’insegnamento che ne deriva: «il primato della preghiera», che «non è un isolarsi dal mondo e dalle sue contraddizioni», ma «un continuo salire il monte dell’incontro con Dio, per poi ridiscendere portando l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio».

É all’interno di questa dinamica che spiega ancora una volta il suo gesto: rispondere a Dio che «mi chiama a “salire sul monte”. Ma questo non significa abbandonare la Chiesa», bensì «continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze.»

Al termine dell’Angelus i saluti ai pellegrini in diverse lingue, un ultimo ringraziamento, poi, diversamente dai divi che si concedono ben volentieri all’applauso, scompare alla vista come chi non vuole attirare lo sguardo su di sé, ma invita a guardare a Cristo.

Mentre lascio Piazza San Pietro mi tornano in mente le parole pronunciate dall’allora cardinal Ratzinger a Subiaco qualche giorno prima di essere eletto papa. «Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini. Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia il quale, in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire, a risalire alla luce, a ritornare e a fondare a Montecassino, la città sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo.» Ai giovani a Colonia disse: «Solo dai santi, solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento decisivo del mondo.».

Ho la certezza di avere visto un nuovo Benedetto, un santo. Avverto il desiderio di seguirlo sulla via della fede, una gioia profonda e un rinnovato impeto di bene e di costruzione. Attorno ai santi la vita rifiorisce.

Eugenio Dal Pane

Novella, “sotto il segno dell’Amore”

La peregrinatio delle reliquie dei coniugi Luigi e Zelia Martin, che recentemente sono state portate a Castel Bolognese e a Lugo, ha richiamato l’attenzione sulla santità come dimensione non solo della persona, ma della famiglia stessa.

Uno dei luoghi dove le reliquie hanno sostato è la Casa d’Accoglienza San Giuseppe e Santa Rita, sorta da una famiglia, Giuliano e Novella Scardovi, che con la loro vita e la loro opera hanno ridestato e segnato tantissime persone.

Per tale ragione in occasione dell’incontro mondiale delle famiglie può essere utile richiamare alla memoria una storia in cui ciò che emerge non è una capacità ed una genialità puramente umana, ma cosa può fare Cristo in una persona e in una famiglia quando si lasciano afferrare da Lui.

Dalla tenda alla casa - Novella ScardoviLa storia che li ha portati a costruire la Casa, infatti, è iniziata in un campeggio dove Novella si trovava per curare una sorta di male di vivere che da tempo rendeva spenti i suoi occhi e tristi le sue giornate fino a mettere in crisi anche il matrimonio. Nulla era in grado di attrarla, di destare il suo interesse e di renderla felice. Ma in quel campeggio fece esperienza di una grazia imprevedibile. Attraverso l’accoglienza semplice di una famiglia che conosceva di vista e la preghiera assieme a loro riconobbe il Signore che le veniva incontro, che le era amico. Comprese di chi era la vita, la sua vita. Da quel giorno non si sentì più orfana, ma voluta, amata. I suoi occhi tornarono vivi, le giornate intense, mosse dal desiderio di ridonare ad altri ciò che a lei era stato dato e l’aveva liberata dall’angoscia. Un mese dopo quell’incontro don Gianni Cenni, allora arciprete di Castel Bolognese, celebrava nella loro casa la Messa per i dieci anni di matrimonio.

Poi il 22 maggio dell’anno seguente, il 1978, l’intuizione di una grande casa dove accogliere bambini. Sogno apparentemente folle per una casalinga sposata con un vigile urbano, che a fatica arrivavano al fine mese, ma tenacemente perseguito (e realizzato due mesi prima della morte in un incidente stradale) nella certezza che se il Signore l’aveva scelta e aveva suscitato in lei quel desiderio l’avrebbe portato a compimento.

Novella concepiva la casa come un segno e un seme di bene per tutti. Lo stesso nome del podere dove era sorta, la Furlona, la cui etimologia rimanda all’idea di solco o canale per l’irrigazione, le aveva suggerito l’immagine della casa come strumento per «bonificare questa terra». Era questo il suo intento, risvegliare l’amore al bene attraverso la carità per ricostruire il popolo come il terreno buono attraverso il quale l’io è ricreato e porta frutto. Era stato così per lei in quella tenda e questa era la strada che proponeva a tutti.

Negli ultimi tempi ci ripeteva continuamente che non si può diventare amici se non impariamo ad amare Gesù, se non fissiamo il Suo volto, se non riconosciamo in Lui quell’amore misericordioso che tutto abbraccia e tutto salva, anche il nostro limite e il nostro male. Nella prima pagina di un’agenda aveva scritto a caratteri cubitali: “Sotto il segno dell’amore”. E aggiunge: “Sarà forse il titolo di un libro che scriveremo con Eugenio. Vuol dire che il segno non è l’acquario, come avrei detto fino a poco tempo fa, ma l’amore di Dio per me”.

Questa costante tensione a Colui che aveva fatto rinascere la sua vita è la vera eredità di Novella che spiega il permanere e il fiorire dell’opera che da lei è nata, segno evidente dell’opera di Dio tra noi a cui guardare per potere sperare in questi tempi di smarrimento e di confusione.

23 aprile: Giornata Mondiale del Libro

Oggi è la giornata mondiale del libro.
Il libro è un bene fondamentale per lo sviluppo della ragione dell’uomo, che è lo strumento attraverso il quale prende coscienza di sè e della realtà fino a quel fattore ultimo della realtà che è il significato della realtà stessa.

Qual è la natura del libro? Di comunicare la tensione dell’uomo alla verità, alla bellezza, alla giustizia, al bene, così da alimentare in lui, attraverso l’incontro con la ricerca e la testimonianza di altri uomini, la tensione a tutto ciò che è giusto, nobile, umano. La lettura ha come scopo l’incremento della nostra umanità ed è un fondamentale mezzo di dialogo e di comunione tra gli uomini che attraverso la cultura accolgono la tradizione in cui sono nati cosicchè entrano nel grande campo della vita non come orfani, abbandonati a se stessi nel deserto, ma con l’eredità lasciata da quanti hanno vissuto prima di loro e che si esprime nell’arte, nella letteratura, in tutte le autentiche espressioni della cultura, spirituale e materiale.

Per questo è nata Itaca, una realtà forse unica al mondo, che si differenzia sia dalla libreria commerciale sia da schemi logori, di derivazione ottocentesca, che separano editoria laica e editoria cattolica, libreria laica e libreria cattolica.

Prima di essere religioso, agnostico o ateo, materialista o spiritualista, di destra, di centro o di sinistra, l’uomo è un essere fatto per la felicità, per il bene, per la verità, per la giustizia, per la bellezza: questo è il nostro interlocutore.
Se il commercio è scambio di beni, il libro che vendo deve essere un bene per chi lo leggerà, cioè contribuire a incrementare la sua umanità, perchè se un uomo non sa giudicare l’esperienza che vive è in balia della mentalità dominante e finisce per essere in potere sia dei propri istinti sia del potere politico, culturale, economico, che ha come fine se stesso, non il bene dell’altro.

L’impresa di diffondere cultura

Fin dalla giovinezza ho avuto la grazia di incontrare grandi preti. Devo ad essi il suggerimento di letture che mi hanno aiutato a cogliere la bellezza e la ragionevolezza del cristianesimo che avevo respirato nella mia famiglia e nella mia piccola parrocchia di campagna.

Il fascino e l’entusiasmo destati furono all’origine di due attività. Poco più che ventenne cominciai a curare la diffusione di libri in occasione di assemblee, incontri, feste. In seguito partecipai alla costituzione di un centro culturale: organizzavamo mostre, concerti, spettacoli teatrali, incontri di cui pubblicavo le trascrizioni. Mi muoveva una passione per la vita delle persone, della Chiesa e della società e il desiderio di comunicare a tutti ciò che a me era stato dato. Allora insegnavo in una scuola cattolica: non immaginavo che si stesse preparando la mia vocazione.

Nel 1989 – avevo già 35 anni e nessuna esperienza imprenditoriale – fondai Itaca. La concepii come una realtà a servizio di persone, comunità, parrocchie, diocesi. Lo scopo era facilitare la promozione di eventi culturali e il reperimento di prodotti editoriali selezionati dai cataloghi di numerose case editrici. Mi rendevo conto già allora – e oggi la situazione è ben più grave – che il mercato teneva ai margini tante pubblicazioni di valore e che occorreva trovare i canali per dare ad esse la massima diffusione perché profondo era il segno che lasciavano nelle persone.

Dieci anni fa iniziai a produrre mostre. Ad oggi sono oltre 350 gli allestimenti realizzati che hanno raggiunto un centinaio diocesi e totalizzato oltre 700.000 visitatori. Quanti ne abbiamo visti commossi fino ad esserne segnati per la vita, come una ragazza, oggi monaca trappista a Vitorchiano, che ha sentito la vocazione seguendo la visita guidata ad una mostra su Caravaggio.

Un’altra esperienza molto significativa promossa da Itaca è il libro del mese in parrocchia. Qualche anno fa in occasione della Quaresima un amico sacerdote mi chiese di proporgli due o tre libri di cui suggerire la lettura ai parrocchiani. La proposta trovò molta accoglienza tanto che i volontari che curavano la vendita in fondo alla chiesa si trovarono ben presto senza copie.

Sulla scia di questa positiva esperienza, nel dialogo con don Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana, è maturata l’idea per la prossima Quaresima di una diffusione straordinaria nelle parrocchie degli ultimi libri di Benedetto XVI, Gesù di Nazaret e Luce del mondo, come gesto di gratitudine e di amore alla sua persona e di adesione alla sua preoccupazione per la crisi della fede all’interno della Chiesa stessa. L’iniziativa vuole contribuire a sottrarre libri fondamentali da una logica consumistica che brucia tutto in fretta. Riproporli a distanza di tempo dalla loro pubblicazione è il modo più semplice per ribadirne il valore e invitare alla lettura – quanti li hanno acquistati senza averli letti! – di testi che fanno incontrare Gesù, luce del mondo.

In tempi di crisi economica e antropologica, di confusione e di smarrimento, proporre libri che siano come una stella cometa è una carità che va incontro alla grande povertà del nostro tempo: quella del senso. La modalità organizzativa è semplice. L’unica condizione è che ci sia una persona che abbia percepito per sé la bellezza dell’essere cristiano e la gioia di comunicarlo.

Buon Natale

«Hai moltiplicato la gioia,
hai aumentato la letizia».

Da giorni risuona nella mia mente questa espressione del profeta Isaia che ascoltiamo nella notte di Natale. Gioia e letizia frutto della Sua iniziativa: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse». «Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio».

Parole ascoltate tante volte, ma l’esperienza di questo anno me le fa sentire particolarmente familiari. «Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia».

TU.

Se mi chiedo da dove nasca questo sentimento di gioia e di letizia che sento in me ho un’unica risposta, per ciò che ho visto accadere da quando due mesi fa in un momento di fatica ho sussultato davanti ad una frase: «Il Signore completerà per me l’opera Sua. Non abbandonerà l’opera delle Sue mani».

L’opera Sua, delle Sue mani non è appena quel che faccio, ma la mia stessa vita. Lui la completerà per me, la porterà a compimento. Del resto, come scriveva Michelangelo, «che poss’io, Signor, s’a me non vieni / con l’usata ineffabil cortesia?».

Com’è facile vivere la giornata come se tutto dipendesse da me, per assoggettare la realtà al mio progetto e dimostrare la mia capacità. Ma la/le crisi, la malattia, la morte mettono davanti alla verità: io non sono il padrone né della mia vita né del mondo, nemmeno del mio piccolo mondo, da me non dipendono né il vivere né il morire. Come ci ha insegnato don Giussani, la cosa più evidente è che in questo istante io non mi faccio da me, io sono Tu che mi fai.

L’esperienza di questi mesi mi ha reso evidente che proprio questo riconoscimento è la sorgente di una vera e inesausta costruttività. Ho verificato ancora una volta che non appena rialzo lo sguardo sulla Sua presenza, la realtà torna a parlarmi, ad essere piena di segni, di occasioni, di richiamo, di prospettiva, di amicizia. Non mancante, ma sovrabbondante.

Proprio la certezza di un Altro −. «La ragione umana porta insita l’esigenza di ciò che vale e permane sempre» (Benedetto XVI) − rispalanca la ragione, fa guardare tutto con una intelligenza nuova delle solite cose, come se una luce irrompesse a squarciare le tenebre: Caravaggio ha genialmente rappresentato questa dinamica.

Solo per questo posso affrontare le circostanze senza paura perché tutto è nelle mani di un Altro che è per il mio bene e io sono lieto di essere stato scelto a collaborare con Lui che è l’eterno lavoratore.

Non sono un visionario. Se guardo a cosa è accaduto nell’arco di cinquanta giorni, mi risulta evidente che i fatti accaduti hanno come unica spiegazione il mio «io» ridestato. È proprio come dice il Papa: «L’intelligenza della fede [lo sguardo su di sé e sulla vita generato dalla fede] diventa intelligenza della realtà» che attrae e muove all’azione, non per un’ansia realizzativa, ma per un fuoco ardente che vuole infiammare tutto: sei libri pubblicati, due in preparazione, un’intensa attività commerciale, il rilancio del network di librerie, la pubblicazione del nuovo sito itacaedizioni.it, il lancio della libreria Itaca, un’azione pubblicitaria e di comunicazione a livello locale e nazionale, nuovi investimenti. Al tempo stesso un rinnovato rapporto con i collaboratori, una reale amicizia con gli autori dei libri, come se tutto partecipasse di quell’«Amor che move il sole e l’altre stelle» per dirla con padre Dante.

In queste ultime settimane sono stato molto colpito dal lavoro per la realizzazione del libro Si può sperare in tempo di crisi? in cui circa quaranta tra imprenditori e responsabili di opere non profit della CDO Ravenna e Ferrara raccontano come stanno affrontando questo momento. È stato come se un’ondata di bene e di certezza avesse inondato la mia vita.

Il libro è uscito da pochi giorni, ma già molti soci mi hanno riferito che esso coglie il desiderio della gente di una parola di speranza, di vedere che per qualcuno la vita è positiva non per un volontaristico pensiamo positivo, ma per  «la coscienza del Mistero presente» che «rende la nostra vita un flusso continuo di novità».

Verificarlo nel lavoro e nella vita quotidiana dell’impresa, nel rapporto con la moglie e le figlie, è davvero fonte di letizia e di pace, come per i pastori che «se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto».

Dove questa novità accade la gente accorre, attratta da una luce attesa e desiderata, finalmente presente.

Con l’augurio che il Mistero del Natale sia per ciascuno fonte di luce, di grazia e di letizia.

 

Si può sperare in tempo di crisi? (2)

«In una società che vive una crisi economica, morale, educativa, della famiglia… quale speranza c’è? Per rispondere a una domanda come questa posso solo guardare opere come quelle della Casa: trovo in essa un modello per tutti, l’esempio di una ricerca per mettersi in relazione e di collaborazione concreta per superare una crisi così faticosa e dalla conseguente sofferenza economica. Unendosi per uno scopo è possibile affrontare i problemi, attraversare la tempesta.»

Chi scrive così nel contributo che compare nel libro Si può sperare in tempo di crisi? è Giuseppe Toschi, ex direttopre didattico, e oggi presidente dell’A.S.P. di Faenza, che da anni collabora con la Casa d’Accoglienza San Giuseppe Santa Rita di Castel Bolognese. Un giudizio realistico il suo.

Cosa fare, infatti, per uscire dalla crisi, che cosa può rimettere in moto? Guardando uomini, opere, imprese in cui il bene c’è. A forza di sentire notizie esclusivamente su ciò che non va o che manca, si finisce per identificare quelle parziali rappresentazioni con la realtà, «intossicandoci, perché il negativo non viene pienamente smaltito e giorno per giorno si accumula. Il cuore si indurisce e i pensieri si incupiscono» (Benedetto XVI).

Ma se c’è almeno un luogo, una persona, un’opera in cui il bene diventa evidente tanto da destare attrattiva in chi vi si imbatte, allora è possibile sperare.

Peraltro l’origine e la storia della Casa sono davvero emblematiche. Essa, infatti, è stata fondata da una donna, Novella Scardovi, che a ventotto anni si era ritrovata in preda ad una totale sfiducia verso l’esistenza. Fu la semplicità di un incontro umano a ridestare in lei la coscienza della positività e della bellezza della vita fino a desiderare «che altri potessero fare lo stesso incontro che aveva liberato me dall’angoscia. Sapevo bene per esperienza personale come fosse drammatica la solitudine e quanto profondo fosse il bisogno dell’uomo».

Così è diventata appassionata costruttrice innanzitutto di rapporti umani, ha condiviso i bisogni di centinaia di persone, fino alla costruzione della Casa, avvenuta diciannove anni dopo quell’incontro. Attraverso di lei tanti sono stati sostenuti nelle difficoltà della vita e sono rinati alla speranza: non a caso il suo nome riaffiora in diverse pagine del libro. Sarebbe interessante chiedersi quanta energia, quanto bene, quanta bellezza siano stati destati dal cuore vibrante di questa donna e di quanti con lei prima hanno collaborato alla costruzione della Casa e poi ne hanno proseguito l’opera.

Come il libro ampiamente documenta è l’io il fattore decisivo per affrontare e andare oltre la crisi: come potrà esserci ripresa economica senza ripresa dell’umano, se non si accende il desiderio di verità, di bellezza, di giustizia, di amore, di costruttività, di utilità del vivere che costituisce il cuore, la natura profonda di ogni uomo?

Per questo abbiamo messo a conclusione della seconda parte due esperienze le quali documentano che è possibile un nuovo inizio anche dopo una profonda crisi, personale o aziendale, che addirittura la vita può riprendere molto più vera di prima e l’azienda crescere più solida, perché dove l’umano rinasce tutto acquista un ordine, una verità, una bellezza prima sconosciuti. Ma appunto occorre uno sguardo umano, un’amicizia, un terreno buono dove l’io sia custodito e nutrito, come un seme destinato a diventare un albero che porta frutto e alla cui ombra è possibile riposare.

Si può sperare in tempo di crisi?

Ho appena mandato in stampa – uscirà venerdì – il libro Si può sperare in tempo di crisi? dove sono raccolte interviste e testimonianze di imprenditori e responsabili di opere non profit i quali raccontano come stanno vivendo questo difficile momento.

L’idea di questo libro è nata a seguito del documento pubblicato da Comunione e Liberazione, La crisi sfida per un cambiamento. «La crisi è un dato» vi si legge. «È irrazionale pensare che basti essere contro qualcuno per sconfiggere la crisi, peggio ancora è negarne l’esistenza. È il contrario di quella tradizione ebraico-cristiana per la quale la realtà è percepita come ultimamente positiva, anche quando mostra un volto negativo o contraddittorio.

La realtà, infatti, ci rimette continuamente in moto, provocandoci a prendere posizione di fronte a ciò che accade.

Questa consapevolezza ha costruito la storia millenaria dell’Occidente. E a dispetto di ogni dualismo o manicheismo – per cui il male è sempre da una parte e il male sempre dall’altra –, ha permesso di costruire il futuro proprio accettando le sfide della realtà, rispondendo ad esse con intelligenza, creatività e capacità di sacrificio.»

Non appena lessi queste parole mi vennero subito in mente i soci della Compagnia delle Opere di Ravenna e Ferrara, di cui conoscevo la ricchezza umana e l’intelligenza imprenditoriale, e pensai che sarebbe stato interessante chiedere loro come stavano affrontando questa circostanza così da verificare sul campo se quanto scritto in quel documento, «La realtà è positiva perché mette in moto la persona», fosse una affermazione astratta, fuori della realtà o, per qualcuno almeno, una esperienza.

Da mesi i dialoghi tra le persone come la comunicazione sui mass media avevano un unico contenuto, la crisi e le sue conseguenze, con un inevitabile effetto depressivo, insopportabile a livello psicologico e paralizzante a livello operativo: laddove prevalgono lamento e disperazione, quale novità può accadere? E se non accade una novità, potrà mai esserci una ripresa?

L’obiettivo che mi proponevo era documentare esempi di costruzione in atto, così che si potesse dare voce alla speranza non come un fatalistico «speriamo» o un irragionevole «pensiamo positivo», privo di fondamento, perciò illusorio, ma alla speranza come esperienza di un bene presente, di una roccia su cui sono poggiate le fondamenta della propria casa per cui, pur provata dalla tempesta, resiste a differenza di quella costruita sulla sabbia.

Pensavo che mi sarebbero arrivati pochi contributi: ne ho raccolto una quarantina, Pur essendo quasi esclusivamente di area romagnola, essi assumono un valore paradigmatico come documentazione del fatto che nel nostro Paese esistono tantissime persone che, per citare ancora il documento di CL, «non si lasciano trascinare dal flusso delle cose, ma remano controcorrente anche a costo di sacrifici», persone «che si sono rimesse in azione senza aspettare che altri – sempre altri – risolvano i problemi. Non potendo cambiare tutto subito, hanno cominciato a cambiare loro.»

Non per una sorta di giogo imposto dalle circostanze e amaramente subito – questo l’aspetto che mi ha sorpreso sopra tutti –, ma con una gratitudine fino alla letizia che trapela nei loro racconti per essere stati sfidati dalla realtà a rimettersi in gioco, ad allargare gli orizzonti, a ripensare il rapporto con i collaboratori, i clienti e i fornitori, l’organizzazione interna, le strategie, a innovare il prodotto, a muoversi per cercare nuovi mercati a livello nazionale o all’estero. Da questa crisi – c’è da esserne certi – il tessuto economico del nostro Paese uscirà rinvigorito.